VI.

L’ultimo periodo e la «Feroniade»

Già nella lettera citata alla fine del precedente capitolo si può notare un affettuoso moto dell’animo del Monti verso persone «care», cosí schietto che fa sentire come lo sviluppo di una sua maggiore attenzione e intensità negli affetti privati, nell’amore per la famiglia e gli amici; e questi divengono anche nelle lettere (prima troppo invase dagli ossequi ai potenti, dai calcoli ambiziosi, dagli sfoghi egoistici del giovane assetato di gloria, dell’uomo maturo inebriato della gloria raggiunta) i termini di una tensione affettiva costante, dolce e venata dalla malinconia della vecchiaia e della sventura.

E insieme si avverte anche un’attenzione piú forte e quasi esclusiva alla vita artistica, allo studio dei classici di quella lingua italiana la cui difesa in questi anni senili diviene una delle preoccupazioni piú costanti del Monti. E tutto ciò in corrispondenza con un orientamento ormai decisivo del suo gusto in senso neoclassico (come abbiamo visto già parlando delle poesie dal 1807 al 1809), con il definitivo abbandono della poesia dell’entusiasmo contemporaneo, delle macchine «visionistiche», della mitologia cristiana o nordica. Svolgimento definitivo del suo gusto e raccoglimento (se non approfondimento intenso in un animo per sua natura non profondo) in un senso piú pensoso e affettuoso della vita e della poesia, già ben percepibili nel periodo intorno all’Iliade e piú decisamente in quello degli anni del crollo napoleonico, del ritorno austriaco a Milano (dove il Monti visse dal 1801 fino alla morte nel 1828); avvenimenti turbatori e anticipi delle sventure che colpirono il poeta negli ultimi anni (malattia, disagio economico, morte dell’amatissimo genero, il Perticari, calunnie contro la figlia Costanza).

Il crollo della potenza napoleonica e del regno italico aprí un momento di particolare preoccupazione per il Monti, ma caratterizzato piú dalla tristezza che da quella irrequietezza che, nel burrascoso passaggio da poeta della corte pontificia a poeta repubblicano, aveva indotto il Monti a prender posizione di vate (prima nella Bassvilliana, poi nei poemetti repubblicani) abbandonando la strada della poesia dei «bei carmi» e dei «bei miti», malgrado alcuni accenni ad una professione di fede poetica nella santità della pace e dei pacifici studi poetici (si ricordi la lettera al Galeani Napione di quel periodo).

Ora la tentazione degli avvenimenti contemporanei è del tutto scomparsa (a parte il fatto che il ritorno degli austriaci in Lombardia non aveva certo gli elementi suggestivi e affascinanti che poterono colpire sinceramente il Monti all’ingresso delle armate francesi in Italia, alla diffusione degli ideali repubblicani) e del resto già nel Bardo della selva nera, rispetto alla Bassvilliana, ben si sente l’assenza di un vero entusiasmo per gli avvenimenti celebrati. Ormai il Monti viveva davvero in un cerchio di affetti familiari ed estetici, nell’amore, nel culto della poesia e della lingua poetica italiana; e nelle lettere, sempre piú tristi e pensose, del periodo dei cambiamenti politici a Milano e in Europa, rari sono anche gli scatti di velleità di impegni non letterari. Quando apparve prossima la caduta del regno italico, il 13 novembre 1813 il Monti scriveva alla contessa Malvezzi: «il mio partito è già preso contro gli interessi del cuore, del cuore che mi richiama a Bologna, verso il tetto paterno, mentre il dovere e l’onore m’incalzano verso le Alpi...»[1]. Era, cioè, disposto ad andare in Francia in un nuovo esilio, ma (a parte poi la caduta della stessa Francia) si trattava di un brevissimo moto velleitario non seguito da nessun gesto concreto[2]. E tanto piú vere e corrispondenti al suo animo ormai disinteressato alle vicende e disposto solo ad accomodamenti per necessità sono le espressioni con cui il Monti esalta la beatitudine (interrotta quanto a vita familiare dalle piú tarde vicende della morte di Giulio Perticari e dalle sventure della vedova) di una vita fra studi e affetti familiari: «Io mi vivo qui beatissimo in braccio a’ miei figli e circondato di buoni libri»[3], il rifugio dei «buoni studi, unico asilo, a chi gli coltiva, nelle burrasche della calva Divinità che siede sopra la ruota. A questo placido porto io pure mi sono riparato il meglio che ho potuto, e qui sepolto fra’ libri mi sto attendendo con animo preparato e sereno la mia sentenza»[4].

La «sentenza» riguardava la sorte che sarebbe toccata alla sua «pensione» di storiografo del regno italico sotto il nuovo governo austriaco, e per limitarne il piú possibile la forte riduzione il Monti accettò di servire il nuovo governo occupandosi della rivista letteraria classicistica protetta dall’Austria, la «Biblioteca italiana», e scrivendo in diversi anni tre cantate drammatiche in occasione dell’arrivo del viceré e di visite a Milano dell’imperatore d’Austria (Il mistico omaggio, del 1815; Il ritorno di Astrea, del 1816; L’invito a Pallade, del 1819).

Componimenti scritti davvero senza alcun entusiasmo, per pura necessità pratica, anzi con fastidio, come il Monti dice chiaramente in una lettera del 21 maggio 1819[5] al Perticari annunciando con ironia e disprezzo: «Un superiore comando al quale non ho potuto sottrarmi, né il dovea, mi ha sbalzato improvvisamente in Parnaso per gracidarvi una Cantata, un Inno (e che mostro ne debba uscire nol so neppure io)...». Non ne uscirono mostri (e specie la cantata del 1819 denuncia la mano sicura del letterato squisito), ma certo componimenti freddissimi, per i quali non si potrebbe davvero ricostruire un nuovo entusiasmo «austriaco» del Monti. Né veramente par giusto parlare di un Monti «austriaco»[6], dopo il Monti papalino repubblicano e napoleonico, ché in quest’epoca ormai egli era davvero, come scriveva in una triste lettera del 30 marzo 1821[7], del tutto «straniero al mondo politico» e «vivo tutto a se stesso nel letterario».

In questa situazione di maggiore raccoglimento, di sviluppo di affetti privati, di rinuncia (che è anche una interna perdita del calore piú impetuoso della sua lunghissima gioventú) all’epico grandioso e contemporaneo, in questa accettazione del gusto neoclassico che non subisce piú deviazioni e oscillazioni, la poesia montiana si svolge in una forma piú diretta di confessione, di colloquio autobiografico, su temi di occasioni private, e nel piú impegnativo lavoro della Feroniade in cui la poesia dei bei miti trova la sua piú intera espressione mediando anche, in forma piú indiretta, i sentimenti e gli affetti dell’ultimo Monti, realizzando in una zona media di neoclassicismo affabile ed eletto, gentile e decoroso, in un tono medio di discorso poetico vòlto al delicato piú che all’energico, la nuova disposizione ad una immaginosità e ad una sonorità piú sottili e piú pacate.

Nelle poesie di occasione autobiografica si svolge una tenue ispirazione fra idillio pensoso ed aperta elegia, con effetti di una maggiore finezza sentimentale adeguata da un gusto piú casto e misurato, ma anche occorre subito dire, con una certa impressione di interiore stanchezza, di una perdita dell’impeto di altri periodi montiani non solo in ciò che esso aveva di piú retorico, ma anche in quel piglio piú fresco e schietto che si nota nelle odi-canzonette e negl’inni repubblicani, e in quella tensione al mitico grandioso che aveva raggiunto il suo massimo nel Prometeo. Una perdita piú evidente appunto in queste poesie piú disadorne, semplici, senza miti, un po’ troppo stinte dopo tanto colore di altre opere montiane, un po’ troppo smorzate dopo una sonorità cosí accesa e ricca.

Questo per precisare i limiti entro cui può accogliersi la validità e la novità di questa poesia autobiografica, in cui lo stesso ripiegamento del Monti in un atteggiamento piú pensoso e affettuoso appare in parte frutto anche di una forza diminuita (e non di una profonda trasformazione), di una certa stanchezza senile accresciuta dalle sventure. Mentre all’acquisto di una voce piú sobria e pacata, di un disegno piú sicuro e piú fine corrisponde un piú adeguato rigore d’immagine e un impegno poetico-letterario maggiore nella poesia mitologica, specie nella Feroniade.

Fra le poesie «private», d’altra parte, occorre distinguerne alcune piú veramente scialbe, di una castità gracile che confina chiaramente con la debolezza e con una discorsività quasi prosastica (in cui si confonde la maggiore delicatezza con un tremore senile), con una voce querula e stanca e in cui certi temi letterari, congeniali all’amore per la bella letteratura, si diluiscono in forme troppo discorsive (come il lungo componimento del 1822 Per le quattro tavole rappresentanti Beatrice con Dante, Laura col Petrarca, Alessandra coll’Ariosto, Leonora col Tasso; mirabilmente dipinte da Filippo Agricola), da altre in cui gli affetti familiari e il sentimento delle sventure alimentano piú efficacemente tenui, ma piú limpide e sensibili costruzioni, o fondendosi con una delicata simpatia per la vitalità casta e lieta di fanciulle amiche (Le Grazie riformate per l’albo delle amabilissime fanciulle Isabella e Emilia Londonio) o direttamente esprimendosi come nel sonetto Per un ritratto dell’Agricola rappresentante la figlia del poeta, del 1822[8], o come nella canzone Pel giorno onomastico della mia donna, del 1826.

Quest’ultima è certo la conclusione piú alta di questa linea di poesia senile affettuosa e malinconica, e nella sua costruzione cosí misurata e lineare, nel suo discorso poetico cosí suadente e sommesso, non manca certo un’animazione sentimentale anche se priva di una intensa liricità, di un accento di malinconia spirituale che qui è piuttosto sostituita da un moto psicologico piú superficiale, da una mestizia che sale da una stanchezza piú che da una profonda intuizione malinconica della vita: anche dove (i vv. 35-45) la finezza sentimentale ed espressiva son piú evidenti e il tono malinconico si appoggia ad una rassegnata e mesta costatazione generale (che non raggiunge l’intensità delle grandi verità poetiche sorte da problemi profondi commutati in poesia):

... Ma sia breve

per mia cagion il lagrimar: ché nulla,

fuor che il vostro dolor, fia che mi gravi

nel partirmi da questo

troppo ai buoni funesto

mortal soggiorno, in cui

cosí corte le gioie e cosí lunghe

vivon le pene; ove per dura prova

già non è bello il rimaner, ma bello

l’uscirne e far presto tragitto a quello

de’ ben vissuti, a cui sospiro...

Comunque, versi di singolare finezza e misura, lontanissimi dalle ricerche di contrasti, di effetti, di immagini vistose, di cadenze sonore, e costruzione generale di un discorso poetico che ha attenuato la tentazione della declamazione, aperta ed enfatica, come si può vedere nella bella apertura sobriamente tenera («Donna dell’alma mia parte piú cara, / perché muta in pensoso atto mi guati, / e di segrete stille / rugiadose si fan le tue pupille?») e nel caratteristico finale in cui la ricerca della clausola, cosí essenziale nel Monti, ha puntato – proprio all’opposto di quanto avviene di solito nelle sue poesie, specie giovanili – non su di un effetto «ingegnoso» inaspettato, immaginoso e sonante, ma su di una chiusa di semplice eleganza, di stilizzata discorsività[9].

In questa direzione di poesia delicata e sommessa, di gusto veramente squisito, in cui la tenue discorsività poetica può apparire in certi punti quasi frutto di stento e stanchezza (certo un polso che batte meno pieno, rallentato anche se continuo), si era forse sin troppo perduta la tensione all’immagine che abbiamo visto cosí essenziale nel Monti, anche nella prova alta della traduzione dell’Iliade, anche fuori degli eccessi dello spettacolare, dello scenografico vistoso e addirittura sfacciato, della immaginazione a volte oziosamente proliferante.

Il Monti lo sentiva addirittura soffrendone, e frequente è nelle lettere (e nelle stesse poesie di questo periodo) il lamento per il suo «stanco ingegno privo dell’estro antico», e se sul piano della vita egli sentiva il conforto della resistente attività affettiva («l’unico mio conforto è sentirmi ancor vivo il cuore, il quale si apre piú che mai ai sentimenti dell’amicizia»[10]), per la sua vita di poeta sentiva insufficiente l’espressione degli affetti e si rallegrava solo quando notava segni di persistente vitalità dello «spirito poetico» che per lui era soprattutto la capacità di creare immagini, e particolarmente immagini mitiche[11], immagini confortate da quella tradizione poetica classica di cui egli era diventato (dopo essere stato fautore, da giovane, di mode nordiche e «orientali») il massimo difensore in Italia.

Difensore, in verità, un po’ restio a prender parte decisamente nelle dispute della romanticomachia (anche perché molto accarezzato dai romantici milanesi dai quali certe sue opere erano considerate senz’altro romantiche) e intervenuto decisamente solo con grande ritardo, nel 1825 (quando ormai il romanticismo era ben affermato), con il Sermone sulla mitologia: componimento di scarso valore critico e piú che altro difesa passionale di quei bei miti che ormai da tempo il Monti considerava parte essenziale della lingua poetica, ma che non trovano in verità una vita poetica efficace nella impostazione polemica del Sermone.

Ben piú efficace vita essi hanno in quel poemetto-idillio, pure nel 1825, Le nozze di Cadmo e d’Ermione, che ha un inizio veramente squisito (uno degli esempi piú nitidi del neoclassicismo montiano):

Il giorno ch’Ermïon, di Citerea

alma prole e di Marte, iva di Cadmo

all’eccelso connubio, e la seguia

tutta, fuor Giuno, degli dei la schiera

gratulando al marito e presentando

di cari doni la beata sposa,

col delio Apollo a salutarla anch’esse,

comparvero le Muse. Una ghirlanda

stringea ciascuna d’olezzanti fiori

(sempre olezzanti, perché mai non muore

il fior che da castalia onda è nudrito);

e tal di quelli una fragranza uscia

ch’anco i sensi celesti inebbriava,

e tutta odor d’Olimpo era la reggia,

e che è anche molto interessante per il finale, in cui un sentimento autobiografico (che lega cosí il poemetto alle poesie «private» degli stessi anni) trova, nella sollecitazione mitica a creare immagini, un’espressione di singolare delicatezza ed energia (un’energia che vibra gentile sul fondo delicato e che sembra per lo piú mancare nelle poesie «private»), un equilibrio delle caratteristiche del nuovo gusto montiano entro una compiuta e suggestiva immagine di paragone.

Sono i versi del congedo in cui il poeta invia il poemetto all’amico Trivulzio[12] con queste parole:

Amico ai buoni, il cielo

di doppie illustri nozze oggi beati

rende i tuoi lari, ed il canuto e fido

de’ tuoi studi compagno, all’allegrezza

che l’anima t’innonda il suo confonde

debole canto, che di stanco ingegno

dagli affanni battuto è tardo figlio;

ma non è tardo il cor, che, come spira

riverente amistade, a te lo sacra.

Questo digli, e non altro. E, s’ei dimanda

come del viver mio si volga il corso,

di’ che ad umíl ruscello egli è simíle,

su le cui rive impetuosa e dura

i fior piú cari la tempesta uccise.

Ma la difesa vera dei bei miti, della sua religione della bella poesia classica e della lingua poetica della tradizione italiana, il Monti la fece compiutamente, e senza polemica, nel poemetto Feroniade, che, insieme alla Proposta[13], lo occupò già negli anni successivi alla traduzione omerica e poi sin negli ultimi anni di vita.

Il poemetto era stato svogliatamente iniziato nel lontano 1784 fra intenzioni cortigiane (l’esaltazione del prosciugamento delle paludi Pontine iniziato e poi abbandonato per insufficienza di mezzi da Pio VI[14]) e una volontà di alta esercitazione di virtuosismo descrittivo (di cui è alta prova – rinforzato da un’estrema sapienza stilistica nella revisione finale e da passi aggiunti negli ultimi anni, come l’episodio del salice e dell’epicedio di Giulio Perticari – la descrizione del giardino di Feronia), e di una illustrazione mitologica leggiadra e colorita come fu poi la Musogonia.

Molto piú tardi ha inizio l’elaborazione piú impegnativa del poemetto, dopo la traduzione dell’Iliade, nel 1812-1813 (e dalla versione omerica ritornarono nella Feroniade molti echi e riprese – ad esempio, l’episodio terminale di Giunone irata e Vulcano – e un generale impulso che sorresse la costruzione dell’unico poemetto praticamente compiuto del Monti) e, poi, nel periodo dal 1816 fino agli ultimi anni, in un lavoro lento ed attento a cui il Monti affidava le sue maggiori speranze di gloria[15], rimpiangendo di avere perduto troppo tempo in opere meno congeniali di questa, in cui egli sentiva di realizzare tutta la sua esperienza artistica, il suo ideale di un’arte creatrice di vicende mitiche riattinte nel vagheggiamento della poesia in cui già avevano avuto vita. Un’arte di tipo umanistico-neoclassico[16], un’arte dotta che non cerca affatto di celare le sue «fonti» ed anzi accuratamente le annota a dimostrazione della propria complessità e ricchezza letteraria[17], ma che insieme vi esprime disposizioni personali vòlte adesso soprattutto verso ideali e toni gentili e delicati, in un gusto di neoclassicismo affabile e fine, decoroso e familiare, e capace di una notevole continuità anche narrativa.

E occorre anzitutto dire che, specialmente nel II e III canto (il I è occupato in gran parte dalla raffinata descrizione del giardino di Feronia), una lettura non impaziente può apprezzare anche una continuità di svolgimento narrativo ben articolato, cosí come nell’atmosfera generale della vicenda gentile e soavemente dolente di Feronia si devono riconoscere gradazioni di toni diversi ed anche – senza eccedere nella richiesta di una consistenza drammatica aliena dalla situazione di questa narrazione a fondo idillico-elegiaco[18] – di figure caratterizzate e vagheggiate nella loro diversa possibilità di suggestione: Giunone corrucciata e impetuosa, Vulcano comicamente volenteroso e servizievole, Giove generoso e nobile, e, soprattutto, Feronia accarezzata lungamente nella sua figura di bellezza vereconda (e quanti degli aggettivi neoclassici si raccolgono efficacemente nella sua descrizione: «man pudica», «casta mano», «pio sguardo»), perseguitata ed afflitta.

Tutto il poema (in quanto composto in diversi tempi, ma rielaborato a lungo sino alla morte sí da acquistare una sua sostanziale continuità ispirativa e stilistica) è percorso da una vibrazione sottile e pacata che nasce anche dai traumi dell’esistenza ed esperienza personale del Monti senile (con le sue sventure familiari, i suoi scacchi crescenti sotto la fama sontuosa, con l’amarezza della vecchiaia, le delusioni esistenziali che lo respingono entro il chiuso degli affetti piú sicuri) che si intreccia, nei suoi toni malinconici, alla prospettiva narrativa-mitica di vicende di numi riportati alla loro misura piú umana, esposti ai sentimenti e alle delusioni dei mortali e alla descrizione chiaroscurale (in un giuoco piú sottile e misurato rispetto ai rilevanti e sorprendenti contrasti grandiosi e scenografici della sua poesia visionaria) di scene naturali e celesti in cui la sua mano si è fatta piú nitida e meno spavalda e l’accensione poetica è divenuta meno «entusiastica», ma sostanzialmente piú convincente. Mentre la perizia tecnico-stilistica, l’usufruizione degli infiniti esemplari della poesia antica e moderna (fra i classici specie Omero e ancor piú Virgilio, fra i moderni, classicisti didascalici come il Mascheroni, e scrittori preromantici fino al romanticismo neoclassico dello stesso Foscolo), che andrebbe piú minutamente rilevato in un piú capillare ed esauriente esame, permette al Monti l’approdo ad un neoclassicismo tanto piú pacato, misurato, in cui le doti dello stile si adeguano alle virtú della «calocagatia» (piú che della «nobile grandezza»), del pudore, della compassione, della verecondia, dando luogo ad una voce fluente e morbida, ad una luce tenue di singolare continuità e di tenuta di tono, ma con un crescere di resa poetica che, piú dimostrabile in alcuni episodi piú congeniali a questa Stimmung sentimentale-estetica, trova il suo espandersi piú costante nel III canto.

Cosí – sull’esile e plausibile trama narrativa – tutto il primo canto, che presenta la ninfa Feronia nella sua predisposizione alla sventura e ad un’indifesa vicenda di vittima innocente dell’amore di Giove e dell’ira gelosa di Giunone (seppure il finale è ottimistico secondo la natura fondamentale del Monti che «consente» al percorso positivo degli avvenimenti e della storia), si snoda appunto fra questa attenta e sensibile presentazione di una fragile figura femminile (la «sventurata beltà» del v. 556, la «ritrosa fanciulla» del v. 379) pudica e come un po’ trasognata, la descrizione della sua opera coerente (con la sua mano «pudica») di educatrice di fiori e piante con cui inizia la sua trasformazione del paese selvaggio in quel «viridario» fra opulento e gentile nella cui formazione il poeta dispiega il suo virtuosismo descrittivo piú abile e sensibile, anche se non senza il rischio di una degustazione visiva-olfattiva-verbale melodiosa troppo prolungata ed estenuante, ma sempre rialzata dalla finezza psicologico-artistica e da un valore emblematico di questa lunga, assaporata descrizione nei confronti della natura casta e familiare-sacerdotale di Feronia, col suo gusto di giardiniera amorosa, promotrice di questa vita vegetale che occupa gran parte del canto. Finché non si manifesta l’innamoramento di Giove – che dà luogo ad una breve vicenda amorosa interrotta dalla sorpresa, da parte di Giunone, della fanciulla ancora «scomposta i veli e le bende, e le chiome / dell’amplesso celeste accusatrice» (e dunque sempre in un efficace e nuovo incontro di mito e di dimesse sembianze realistiche e quotidiane con qualcosa che fa pensare all’Hermann und Dorothea goethiano) – e lo scatenarsi dell’ira gelosa di Giunone che usa anzitutto del suo potere per aprire il dilagare di fiumi che sommergono la nuova vita della Pontinia e distrugge l’opera di Feronia provocando cosí quelle piccole e delicate scene di vicende domestiche sventurate come quella finale dei fidanzati Timbro e Larina (aperta dalla sigla di sventura e caducità delle gioie umane: «Ahi brevi e false in terra / le speranze e le gioie!»[19]), separati e riuniti dalla morte, in una specie di piccola novella romantica tradotta nella poetica neoclassica (con l’appoggio dell’episodio di Ero e Leandro):

Nella comun sventura erasi Timbro,

dopo molti in cercar la sua fedele

scorsi perigli, l’ultimo su l’erta

spinto in sicuro, e fra i dolenti amici

di Larina inchiedea: Larina intorno,

Larina iva chiamando, e forsennato

con le man tese e co’ stillanti crini

per la balza scorrea; quando spumosa

l’onda, che n’ebbe una pietà crudele,

la morta salma gliene spinse al piede.

Ahi vista! ahi, Timbro, che facesti allora?

La raccolse quel misero, ed in braccio

la si recò; né pianse ei già, ché tanto

non permise il dolor; ma freddo e muto

pendé gran pezza sul funesto incarco,

poi mise un grido doloroso e disse:

Cosí mi torni? e son questi gli amplessi,

che mi dovevi? e questi i baci? e ch’io,

ch’io sopravviva?... E non seguí; ma stette

sovr’essa immoto con le luci alquanto;

poi sull’estinta abbandonossi, e i volti,

e le labbra confuse, e cosí stretto

si versò disperato entro dell’onda,

che li ravvolse, e sovra lor si chiuse[20].

Entro lo svolgersi del canto prendono cosí maggior rilievo poetico (ma senza un distacco prepotente e scattante cui il poeta di altri tempi ci aveva abituato) gli affetti piú personali del Monti filtrati in parti propizie della descrizione del «viridario». Come la sequenza della «mammoletta», «pudica / e cara nunzia d’april», che agevola la presentazione affabile e affettuosa del giardino di Cernobbio dell’ospitale amico Carlo Londonio con le sue due figlie adolescenti, siglata dall’unione di «amore» e «bellezza» e di «amore» e «virtude» secondo la prospettiva piú intima etico-poetica del neoclassicismo:

Ma piú cara alle Grazie, ed alla casta

man di Feronia, con piú pio riguardo

educata tu cresci, o mammoletta,

tu che negli orti cirenei dal fiato

generata d’Amore, e dallo stesso

Amor sul colle pallantéo tradutta,

di Zefiro la sposa innamorasti,

e del suo seno e de’ pensier suoi primi

conseguisti l’onor. Pudica e cara

nunzia d’april, deh! quando per le siepi

dell’ameno Cernobbio in sul mattino

Isabella ed Emilia, alme fanciulle,

di te fan preda e festa, e tu beata

vai fra la neve de’ virginei petti

nuove fragranze ad acquistar, deh! movi,

mammoletta gentil, queste parole:

di primavera il primo fior saluta

di Cernobbio le rose, onde s’ingemma

della regale Olona il paradiso,

che di bei fior penuria unqua non soffre.

Felice l’aura, che vi bacia, e tutta

di ben olenti spirti in voi s’imbeve;

e felice lo stelo, onde vi venne

sí schietta leggiadria: ma mille volte

piú felice e beato al par de’ Numi

chi con man pura da virtú guidata

dispiccarvi saprà dalla natia

fiorita spina, e d’Imeneo sull’ara

con amoroso ardor farvi piú belle:

ché senza amor non è beltà perfetta,

né mai perfetto amor senza virtude[21].

O, piú in profondo, e con chiari richiami alla poesia sepolcrale e particolarmente dei Sepolcri foscoliani (ma usufruita in una interpretazione sommessa che fa tanto piú sottilmente vibrare le note amare e dolenti delle sventure familiari del Monti), la presentazione del salice piangente che apre il brano sepolcrale dedicato a Giulio Perticari e a Costanza, la figlia del Monti, in un’elegia di chiara e ombrosa descrizione intonata ad una «ira e pietà» disacerbata dai piú consueti impeti montiani enfatici ed eloquenti:

Né te, quantunque umíl pianta vulgare,

lascerò ne’ miei carmi inonorato,

babilonico salcio, che piangente

ami nomarti, e or sovra i laghi e i fonti

spandi la pioggia de’ tuoi lunghi crini,

or su le tombe degli amati estinti,

che ne’ cupi silenzii della notte

escono consolate ombre a raccorre

sul freddo sasso degli amici il pianto.

Tu non vanti dei lauri e delle querce

il trionfale onor, ma delle Muse,

che di tenere idee pascon la mente,

agli studi sei caro, e da’ tuoi rami

pendon l’arpe e le cetre, onde si sparge

di pia dolcezza il cor degl’infelici.

Salve, sacra al dolor mistica pianta,

e l’umil zolla, che i mortali avanzi

del mio Giulio nasconde, in cui sepolto

giace il sostegno di mia stanca vita,

della dolce ombra tua copri cortese.

E tu strazio d’amore e di fortuna,

tu derelitta sua misera sposa,

che del caldo tuo cor tempio ed avello,

festi a tanto marito, e quivi il vedi,

e gli parli, e ti struggi in vôti amplessi

da trista e cara illusïon rapita,

datti pace, o meschina, e ti conforti

che non sei sola al danno. Odi il compianto

d’Italia tutta; i monumenti mira,

che alla memoria di quel divo ingegno

consacrano pietose anime belle.

E se tanto d’onore e di cordoglio

argomento non salda la ferita

che ti geme nel petto, e tuttavia

il lagrimar ti giova, e forza cresce

al generoso tuo dolor l’asciutto

ciglio de’ tristi, che alla voce sordi

di natura e del ciel né d’un sospiro,

né d’un sol fiore consolar l’estinto,

dolce almeno ti sia, che su l’avaro

di quell’ossa sacrate infando obblio

freme il pubblico sdegno, e fa severa

delle lagrime tue giusta vendetta[22].

Mentre nell’episodio di Circe si noti l’insinuarsi, nel tessuto lene e pacato, di una vibrazione piú energica che gli fa da chiaroscuro in maniera piú funzionale e riassorbendo – anche su questo registro – i modi di contrasto violento che erano tipici del Monti delle visioni e delle cantiche:

Venne anch’essa del Sol Circe la figlia,

e di sua mano un ramuscel spiccando

della scesa dal ciel pianta diletta,

in grembo al sacro suo terreno il pose.

Cosí crebbe il divin bosco odorato,

che di soave olezzo intorno tutte

della maga spargea le rilucenti

tremende case, ov’ella ognor cantando,

e con l’arguto pettine le tele

percorrendo, facea dolce da lungi

e periglioso ai naviganti invito,

mentre pel buio della tarda notte

lamentarsi e ruggir s’udian leoni

disdegnosi di sbarre e di catene,

urlar lupi, e grugnire ed adirarsi

nelle stalle cinghiali ed orsi orrendi,

che fur uomini in prima, e della cruda

incantatrice sventurati amanti[23].

Piú incalzante si fa nel secondo canto il ritmo dell’ira devastatrice di Giunone che ora ricorre a Vulcano per distruggere ogni vestigio piú resistente di vita nella valle e nei colli della Pontinia fecondata e civilizzata ad opera di Feronia, e – dopo una digressione squisita sulle opere del fabbro divino intento a scolpire un piedistallo per la «pudica Nemorense Diana» con scene del paesaggio del lago di Nemi (il possesso dei Braschi protettori del Monti nel periodo in cui egli intraprese il lungo lavoro della Feroniade), fra le quali scintilla proprio la visione incantata e luminosa del lago («Era a vedersi da una parte il lago / tutto d’argento. Tremolar diresti / l’onde, e rotte spumar dai bianchi petti / delle caste Amnesídi...»[24]), mentre la serie delle scene scolpite termina con quella piú significativa e solenne di Costanza Braschi, orbata dalla morte di figli appena nati:

All’ultimo con raro magistero

l’indomito Vulcan v’avea scolpita

una dolente giovinetta madre,

che, con ambe le mani al crin facendo

dispetto ed onta, su la fredda spoglia

di tre figli piangea tolti alla poppa.

Taciturna e dimessa il padre Tebro

volgea qui l’onda: su la mesta riva

ploravano le Ninfe, e al Vaticano

una nube di duol copria la fronte.

Lagrime tante alfin, tanti sospiri

faceano forza al ciel, finché la santa

madre d’Amore a consolar la donna

dal terzo cerchio le piovea nel grembo

de’ fecondi suoi raggi il quarto frutto[25].

– ottiene che venga scagliato un vaso pieno di brace ardente sul paese aborrito ed immerso nella notte, tutto chiuso in un silenzio fra incantato e premonitore di sventure («Già moria su le cose ogni colore, / e terra e ciel taceva, fuor che del mare / l’incessante muggito»[26]), come avvertono il vecchio pastore Alcone e il suo cane Melampo.

E Alcone

pastor canuto, che v’avea sul margo

il suo rustico tetto, a sé chiamando

su l’uscio i figli, e il mar, le selve, il cielo

esaminando, e palpitando: Oh! (disse)

noi miseri, che fia? Mirate in quale

fier silenzio sepolta è la natura!

Non stormisce virgulto, aura non muove,

che un crin sollevi della fronte: il rivo,

il sacro rivo di Feronia anch’esso

ve’ come sgorga lutulento, e fugge

con insolito pianto; e là Melampo,

che in mezzo del cortil mette pietosi

ululati, e da noi par che rifugga,

e a sé ne chiami. Ah chi sa quai sventure

l’amor suo n’ammonisce, e la sua fede?[27]

Poi subito si sprigiona la luce sinistra e sanguigna dell’incendio subitaneo che illumina il cielo e tormenta la terra («Addolorata / geme la terra, che snodar si sente / le viscere e distrar le sue gran braccia»[28]), con un effetto grandioso ma nuovamente misurato e con il destarsi di uno stupore meno spettacolare che si è alimentato anche della grande lezione omerica (si pensi allo stupore omerico nel celebre passo della luna che illumina il paesaggio nel canto VIII dell’Iliade, già da noi citato per la versione montiana). Sí che l’attenzione del poeta può naturalmente passare dalla descrizione dell’incendio devastatore al terreno piú propizio delle piccole scene quotidiane e realistiche come quella, con cui il canto si conclude, del cane Melampo, unico essere rimasto vivo su quello sfondo di desertico squallore e piú pietoso degli uomini (con una nota di pessimismo sulla condizione e natura di questi, che appare ben sintomatica in questa tarda esperienza del Monti), sí che egli (bisognoso, malgrado tutto, di trovare un elemento positivo, un sí ed un consenso ad una realtà esistente o supposta tale) si volgerà, in questo periodo della sua conversione e del suo ritorno al cattolicesimo, al regno dei «ben vissuti» (come dice nella poesia per l’onomastico della moglie), ad un Paradiso compensatore delle ingiustizie e delle crudeltà umane.

Quando venne un tremor che vïolento

crollò la casa pastorale, e tutta

in un subito, ahi! tutta ebbe sepolta

l’innocente famiglia. Unico volle

la ria Parca lasciar Melampo in vita,

raro di fede e d’amistade esempio.

Ei rimasto a plorar su la rovina,

fra le macerie ricercando a lungo

andò col fiuto il suo signor sepolto,

immemore del cibo, e le notturne

ombre rompendo d’ululati e pianti:

finché quarto egli cadde, e non gl’increbbe,

piú dal dolor che dal digiuno ucciso.

Fortunato Melampo! se qualcuna

leggerà questi carmi alma cortese,

spero io ben che n’andrà mesta e dolente

sul tuo fin miserando. Il tuo bel nome

ne’ posteri sarà quello de’ veltri

piú generosi; e noi malvagia stirpe

dell’audace Giapeto, a cui peggiori

i figli seguiran, noi dalle belve

la verace amicizia apprenderemo[29].

Fra primo e secondo canto (e specie fra l’azione fecondatrice di Feronia con la descrizione del «viridario» e l’opera distruttrice di Giunone con il dilagare dei fiumi e l’incendio) c’è pure una certa alternanza di toni (piú generalmente raffinato il primo, piú generalmente grandioso il secondo). Ed è, come ho detto, nel canto terzo che il Monti raggiunge il livello piú costante e sicuro della sua poesia, raccoglie i frutti piú maturi della sua lunga operazione poetica condotta avanti nella Feroniade.

In effetti la zona piú interamente compatta e significativa della Feroniade è certo, nel canto III, la narrazione dell’errabondo vagare di Feronia per la campagna del Lazio e del suo rifugio in una capanna di pastori, fino alla discesa di Giove al suo fianco.

Già la narrazione del distacco della ninfa dalla sua terra è bene intonata a un ritmo poetico-narrativo decoroso, sapientissimo in rallentamenti e riprese mediante le diverse posizioni degli accenti nel verso[30], a cui corrisponde un coerente svolgimento di gesti e commenti che descrivono la pena sospirosa e gentile, lo scoraggiamento smarrito, ma dignitoso, di Feronia in una musica «lene» di elegia rassegnata a soave, in un linguaggio eletto ed affabile, classicheggiante e pur inclinato familiarmente e capace (si guardi ai due versi finali) di una resa efficace di sottile realismo.

Poi che si vide l’infelice in bando

cacciata dal natio dolce terreno,

d’are priva e d’onori, e dallo stesso

(ahi sconoscenza!), dallo stesso Giove

lasciata in abbandono, ella dolente

verso i boschi di Trivia incamminossi,

e ad or ad or volgea lo sguardo indietro,

e sospirava. Sul piè stanco alfine

mal si reggendo, e dalla lunga via,

e piú dal duolo abbattuta e cadente,

sotto un’elce s’assise; ivi facendo

al volto letto d’ambedue le palme,

tutta con esse si coprí la fronte,

e nascose le lagrime, che mute

le bagnavan le gote, e le sapea

solo il terren, che le bevea pietoso.

In quel misero stato la ravvolse

dell’ombre sue la notte, e in sul mattino

il Sol la ritrovò sparsa le chiome

e di gelo grondante e di pruina...[31]

Poi la scena si svolge, sempre in quest’atmosfera di lieve patetismo e di affabile eleganza (in cui è la definitiva conquista del gusto montiano, nelle sue forme piú pure e neoclassiche, e insieme la definitiva versione montiana di un neoclassicismo decoroso e semplice, finissimo e inclinato ad un’eleganza modesta e familiare), con il sopraggiungere di un pastore, Lica, che trova la dea intirizzita per la notte insonne, ne mitiga il dolore con le sue parole cordiali ed ingenue e l’aiuta ad alzarsi per condurla alla sua capanna. E (con un ritorno di quel motivo dello stupore ch’è cosí montiano ed è tante volte presentato in questo poemetto[32]) la suggestione delicata della scena viene accresciuta dalla rappresentazione dello stupore del pastore che avverte, nel toccare la dea, un misterioso brivido e poi del cane che sulla soglia della capanna vorrebbe abbaiare e non può, pervaso dall’istintivo senso della natura superumana di Feronia:

Levossi in piedi, ed ei le resse il fianco

e la sostenne con la man callosa.

Nell’appressarsi, nel toccar ch’ei fece

il divin vestimento, un brividio,

un palpito lo prese, un cotal misto

di rispetto, d’affetto e di paura,

che parve uscir dei sensi, e su le labbra

la voce gli morí. Quindi il sentiero

prese inver la capanna, e il fido cane

nel mezzo del cortil gli corse incontro:

volea latrar; ma sollevando il muso

e attonite rizzando ambe le orecchie,

guardolla, e muto su l’impressa arena

ne fiutò le vestigia[33].

Solo la moglie del pastore comprenderà («poiché al sesso minor diero gli Dei / curïose pupille, e accorgimento / quasi divin», come il Monti dice con un discorso tanto piú affabile ed efficace di certo declamato sentenziare di altre sue opere in cui l’ambizione non è proporzionata alla capacità) che la ninfa tacita e addolorata, che rifiuta il comune cibo dei mortali, è una dea, e perciò reverente la lascia nella capanna a sfogare il suo dolore per l’abbandono in cui si crede lasciata da Giove.

Ed è al culmine di questo lamento e nel clima di solitudine confidente (capanna pastorale, fresco senso di una campagna notturna insieme remota e vicina nella dimensione affabile di questo poemetto mitico, ma senza il gelido impegno archeologico di tanto neoclassicismo) che si apre la parte finale e piú alta dell’episodio.

Cosí la Diva lamentossi, e tacque.

Era la notte, e d’ogni parte i venti

e l’onde, e gli animanti avean riposo,

fuorché l’insetto che ne’ rozzi alberghi

a canto al focolar molce con lungo

sonnifero stridor l’ombra notturna;

e Filomena nella siepe ascosa

va iterando le sue dolci querele.

In quel silenzio universale anch’essa

adagiossi la Dea vinta dal sonno,

che dopo il lagrimar sempre sugli occhi

dolcissimo discende, e la sua verga

le pupille celesti anco sommette.

Quando il gran padre degli Dei, che udito

dell’amica dolente il pianto avea,

a lei tacito venne; e poi che stette

del letto alquanto su la sponda assiso

di quel volto sí caro addormentato

la beltà contemplando, alfin la mano

leggermente le scosse, e nell’orecchio

bisbigliando soave: O mia diletta,

svegliati (disse), svegliati; son io

che ti chiamo; son Giove. – A questa voce

il sonno l’abbandona, apre le luci,

e stupefatta si ritrova in braccio

del gran figliuolo di Saturno[34].

Pagina veramente suggestiva e coerente in ogni particolare in cui tutto concorre a creare un’atmosfera di pace, di silenzio, di pacata e sommessa poesia: il quieto silenzio familiare e favoloso insieme, appena interrotto dal canto monotono del grillo e dal lamento melodioso dell’usignolo (ed elementi di realtà vibrano qui sottilmente anche nello spontaneo travestimento mitico, nell’eco coerente di ricordi letterari), l’abbandonarsi della dea al sonno che segue alla stanchezza del pianto (e la notazione psicologica discreta e schietta perde ogni carattere di sentimentalismo eloquente). E in questa visione sensibile e musicale, dolcemente monotona e pur nitida ed evidente, si introduce, spontanea e mitica, decorosa e familiare, la figura di un Giove solenne ed umano, nel gesto affettuoso e composto con cui si siede sulla sponda del letto, indugia nella tenera contemplazione della dea amata (la cui bellezza è resa piú affabile e intima dal sonno che la accomuna ai mortali), scuote leggermente la mano della dormiente, le sussurra nell’orecchio parole placide e confidenti di innamorato. Poi il risvegliarsi tra stupito e beato della dea: uno stupore senza richiami e incitamenti eloquenti, un movimento che suggella coerentemente questa sequenza incantata, che possono ben segnare il culmine delle possibilità montiane in quest’ultimo periodo della sua arte fattasi cosí discreta, nitida e misurata, cosí lontana dai suoi pericoli di prolissità e di eccesso immaginoso e sonoro. La mèta di un lungo esercizio artistico, di un cammino che, fra deviazioni, impeti di entusiasmo, tensioni ibride alla grande poesia, adesioni a mode e maniere diverse, approdava nel placido porto di un gusto neoclassico piú adatto alla vocazione montiana per la poesia dei bei miti e dei bei carmi[35].

E se sarebbe errato ridurre tutto Monti a questa linea e non considerare nella storia della letteratura fra Settecento e Ottocento la presenza prevalente e le offerte importanti del poeta dell’entusiasmo e della tensione al grandioso e all’epico (in cui si realizza l’aspetto piú vistoso del suo fondamentale consenso alla storia – specie vincente –, alla vita, alla letteratura), par giusto comunque insistere ancora una volta sulla maggiore sicurezza e coerenza che il Monti raggiunse (nell’ultimo periodo della sua attività, aperto dalla grande prova della versione omerica) nell’adesione piú convinta e decisa al gusto neoclassico di cui la Feroniade è certo una delle prove sintomatiche e convincenti.


1 Epistolario cit., IV, p. 143.

2 Una volta di piú in questa lettera par di avvertire l’accento risoluto di un animo piú profondo e virile: «l’onore mio e la mia coscienza mi vietano», celebri parole nella lettera con cui il Foscolo nel 1815 annunciò la sua partenza per l’esilio alla famiglia. Ma anche qui Foscolo realizzava ciò cui Monti solo aspirava.

3 Al Marchese Trivulzio, Pesaro, 20 luglio 1813, Epistolario cit., IV, p. 129.

4 Al Marescalchi, 13 luglio 1814, Epistolario cit., IV, p. 164.

5 Epistolario cit., V, p. 182.

6 Si ricordi poi che l’atteggiamento di accettazione del nuovo governo da parte del Monti fu confortato dall’atteggiamento generale di quella massoneria del regno italico, a cui il Monti apparteneva da tempo e che (come dimostrò il Luzio) decise di non ostacolare e di accettare il nuovo dominio austriaco.

7 Vi accennava con cauta tristezza alla situazione lombarda dopo i moti piemontesi e napoletani del 1820-1821: «La Lombardia è tutta in gran quiete, ma è la quiete de’ sepolcri piena di spettri». Epistolario cit., V, p. 316.

8 Dal bell’inizio: «Piú la contemplo, piú vaneggio in quella / mirabil tela: e il cor, che ne sospira, / sí nell’obbietto del suo amor delira, / che gli amplessi n’aspetta e la favella».

9 Pregando Dio di render lieti e sereni i giorni della sua donna e degli amici, chiude rivolgendosi a Luigi Aureggi che ospitava lui malato, in una villa in Brianza: «principalmente i tuoi, mio generoso / ospite amato, che verace fede / ne fai del detto antico / che ritrova un tesoro / chi ritrova un amico».

10 Al Cicognara, agosto 1826, Epistolario cit., p. 201. Era ormai ammalatissimo, stroncato da ripetuti colpi apoplettici.

11 In una lettera dell’8 ottobre 1826 al Roverella c’è questo mesto-scherzoso e significativo passo: «Nella montana solitudine, a cui mi son condotto colla speranza che l’aria elastica di questo paradiso della Lombardia potesse invigorirmi la vita, ho ricevuto da’ miei amici, e specialmente dal mio Bellotti, molte consolazioni, e dagli amici non solo, ma anche da stranieri e da belle donne, onde talvolta mi è paruto di essere il Prometeo di Eschilo conficcato alla rupe e visitato dalle Nereidi. In questa bizzarra idea potrai vedere che lo spirito poetico non è in me ancora morto del tutto». Epistolario cit., VI, p. 229.

12 Le cui figlie andavano spose nello stesso giorno. Donde lo spunto nuziale dal mito.

13 Dispiace di non poter fare che un rapidissimo accenno a quella Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca (uscita, in piú volumi, dal 1817 al 1826) che fu la grande battaglia del Monti (con la collaborazione del genero Perticari) in difesa della lingua italiana, contro le pretese municipaliste fiorentine della Crusca e contro il gretto purismo «trecentesco» del Cesari, contro i quali il Monti affermava il fondamentale nesso fra pensieri e parole e quindi l’assurdità di voler privare nuovi pensieri delle parole ad essi necessarie e difendeva la ricchezza non puramente trecentesca e fiorentina della lingua italiana. Battaglia di un vigoroso buon senso e opera di singolare vivacità polemica e satirico-comica specie in certi dialoghi intercalati alle vere correzioni e aggiunte, come quello, ad esempio, sui poeti pre-danteschi immaginati storpi e rattoppati e parlanti con il lessico smozzicato e spesso incomprensibile, tratto da frammenti incerti e spesso male interpretati dai cruscanti. Ai quali il Monti può rimproverare errori numerosi e grossolani, in base alla sua eccezionale padronanza della lingua e alla vastissima lettura diretta degli scrittori italiani: donde la possibilità di battere la Crusca sul suo stesso terreno, mostrando, ad esempio, di una parola il numero molto maggiore di usi e significati – sulla base dell’uso e degli autori – rispetto a quelli registrati dal vocabolario della Crusca. La battaglia antipuristica fu certo uno dei meriti piú concreti del Monti nella storia della cultura letteraria del primo Ottocento.

14 Il poemetto canta le vicende della ninfa Feronia (una fonte a lei dedicata, e ricordata da Orazio, si trovava presso Palestrina, nella zona delle paludi Pontine) amata da Giove e perseguitata da Giunone gelosa che devasta la regione da lei protetta e la costringe ad errare per le campagne del Lazio, finché Giove, che l’aveva resa immortale, la soccorre e le promette solennemente di riconsacrare al suo culto la campagna Pontina, profetizzandone la bonifica per opera di Pio VI. Ma gli elementi cortigiani restano ai margini del poemetto e del resto il finale encomiastico rimase interrotto per la morte del Monti.

15 Dal 1816 in poi crescono nelle lettere gli accenti alla Feroniade: «Mi sta nel cuore la Feroniade e a questa voglio dare tutto il pensiero» (20 gennaio 1816, al Perticari, Epistolario cit., IV, p. 260), «Il corso della mia vita inchina verso la sera, e il poco che mi resta da vivere mi mette conto ad impiegarlo nel dar compimento ad un poema che mi dà qualche speranza di lasciar vivo il mio nome dopo il sepolcro» (3 maggio 1816, a M. Monti, Epistolario cit., IV, p. 295).

16 Poema «tutto antiromantico» chiama il Monti la Feroniade in una lettera del 25 febbraio 1827, a S. Jesi (Epistolario cit., VI, p. 263).

17 Già nella Musogonia il Monti aveva indicato in lunghe note le precise fonti, di miti e persino di versi e parole. Le note venivano a rappresentare la garanzia, la riprova della elaborazione poetica entro il pieno di una tradizione chiaramente, esplicitamente accettata.

18 Il tono fondamentale di dolcezza «lene» e suadente (sino a una certa dolcezza raffinata ed estenuata, sino a una certa cadenza di musicalità molle e struggente: su quella strada si spingerà sino al sentimentalismo piú languido l’Aleardi) è dichiarato dallo stesso Monti all’inizio del poemetto nel riferimento alla poesia omerica (canto I, vv. 20-32): si invoca dalla Musa una «stilla / che dal meonio fonte si deriva», ma «non già quando con piena impetuosa / gl’iliaci campi inonda, a tal che gonfi / dell’alta strage Simoenta e Xanto / al mar non ponno ritrovar la via, / ma quando lene mormorando, irriga / i feacii giardini: e dolce rendi / su le mie labbra la pimplea favella».

19 I, vv. 774-775.

20 I, vv. 786-810.

21 I, vv. 121-152.

22 I, vv. 242-284.

23 I, vv. 355-373.

24 II, vv. 84-87.

25 II, vv. 186-200.

26 II, vv. 379-380.

27 II, vv. 405-420.

28 II, vv. 450-452.

29 II, vv. 513-534.

30 III, vv. 364-366 («... Sul piè stanco alfine / mal si reggendo, e dalla lunga via, e piú dal duolo abbattuta e cadente...»).

31 III, vv. 357-376.

32 V., ad esempio, nel c. II i vv. 191-199 in cui stupore e terrore invadono la natura e gli animali all’appressarsi dell’incendio acceso da Giunone e Vulcano, o nello stesso canto i vv. 296-303, in cui, alla visione del tizzone acceso scagliato da Giunone (che «di sanguigna / luce un grand’arco con immensa riga / segna per l’etra taciturno e scuro»), rimane stupito e sbigottito il montanaro. E nel c. II, notevole per questi effetti di partecipazione della natura a sentimenti di stupore e di allibito, silenzioso terrore, l’episodio – vario di gradazioni piú forti sul fondo idillico-elegiaco – di Alcone (già citato) sull’attesa smarrita del terremoto annunciato dall’improvviso silenzio della natura («Non stormisce virgulto, aura non muove / che un crin sollevi della fronte»). Quell’episodio può anche mostrare come, su questa base del «delicato», il Monti riesca ora a far vibrare, con tanta maggior misura e sottile efficacia, l’elemento «energico» e «forte», senza stonature e senza eccessi. Ma prevalgono ancor piú le impressioni di silenzio, di incantato e favoloso silenzio, come in questa scena della reggia olimpica abbandonata da Giove: «alto il silenzio / dei talami divini: inoltre mute / della foresta dodonea le querce, / cheti i tuoni dell’Ida, e dissipato / il denso fumo che facea palese / la presenza del nume» (I, vv. 516-521).

O si notino i numerosi effetti della luce, amorosamente seguiti e resi con un’attenzione sottile e con un risultato di piú vibrante colore luminoso e musicale coerente colla delicata trepidazione patetica che anima il poemetto: «mentre i raggi del sol vòlti all’occaso / scorrean vermigli su l’incerto flutto; / del sole, che parea dall’empia vista / fuggir pietoso e dietro ai colli albani / pallida e mesta raccogliea la luce».

33 III, vv. 420-433.

34 III, vv. 503-528.

35 Il canto e il poemetto si concludono (su di una interruzione provocata dalla morte del poeta, ma il cui breve completamento è facilmente immaginabile) con la profezia di Giove circa il lavoro dei romani nelle paludi pontine, la sua interruzione a causa delle invasioni barbariche, la sua ripresa di un definitivo prosciugamento da parte di Pio VI. Finale ottimistico che dimostra ancora come il Monti rimanga pur sempre il poeta del consenso agli avvenimenti «positivi» della storia soprattutto ad opera dei potenti.